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Quanti joule servono per confezionare la felicità? La meccanica della passione.

By | crescita personale, News | No Comments

Molto spesso, durante i corsi di crescita personale, la considerazione che sento più spesso è: “si, ma è difficile”. La difficoltà di fare un cambiamento, di comprendere se stessi, di dedicarsi del tempo, di lasciarsi liberi di sperimentare se stessi di fronte al prossimo e alle sue aspettative, nonché alle proprie aspettative di raggiungere risultati ritenuti indispensabili alla realizzazione. È sempre difficile all’inizio, non può che essere così, ma quella difficoltà, se si trova il coraggio interiore di affrontarla, può regalare una semplicità mai immaginata.

La vita in una cittadina, a volerla respirare, è fatta di passeggiate. Spostamenti in “autoscarpa” (così mio nonno chiamava il naturale mezzo di trasporto piedi, lui che non ha mai avuto la patente, ma al massimo due pedali per lunghi tragitti in bicicletta) per andare dove la giornata conduce secondo programmi.
Stamattina mi trasportavo in studio e, mentre ascoltavo l’effetto del sole, la mente stava facendo un riepilogo di un lungo anno di lavoro, dicendo: tanta fatica!!
La parola “fatica”, fin da piccola, nel vedere la fatica dei miei genitori, dei nonni, di coloro che erano la mia famiglia stretta e allargata per legami di affetto, mi è sempre suonata fastidiosa e da fuggire. Tutto di me ha sempre rifiutato la fatica. E più l’ho rifiutata, più ne ho fatta. Tantissima fatica! Sforzo fisico, mentale, emotivo produttore di insoddisfazione e incomprensioni col prossimo, oltre che con me stessa.
Lo stato di sfinimento, che rasenta la pura sopravvivenza, è uno stato con cui riusciamo a produrre molte “cose” dalle quali però è molto difficile trarre un senso pieno e ricco di realizzazione. Ed è uno stato d’animo che si insidia all’interno di sé, diventa un automatismo, un modus operandi con cui si affronta la vita in ogni suo aspetto con l’unico risultato di far sfuggire il tempo in un lento deperimento per consunzione fisica, mentale e spirituale.

Stamattina la mia attenzione è andata ad uno stato d’animo diverso: pronunciavo mentalmente “tanta fatica!!” mentre ridacchiavo soddisfatta, la mia camminata prendeva velocità e i passi sembravano rimbalzi sostenuti dal terreno stesso. Il mio dialogo interiore sulla fatica era associato ad una percezione di meravigliosa leggerezza. La barista a cui ho scelto di dare un saluto oggi, mi ha accolta con un “ti vedo pimpante!” e nel mettermi un cornetto nel sacchetto di carta mi ha regalato la gratitudine di un attimo.

L’osservazione di me è proseguita fino ad arrivare a queste righe in cui riassumere una personale consapevolezza: si sta bene nella fatica!
Come? Proprio in quella fatica demonizzata per una vita? Oh si: lo stupore e la gratitudine di oggi è rendermi conto che in questo anno di cui rifletteva la mia mente, la qualità della fatica è cambiata. Se per molto tempo ho fatto la fatica di raggiungere un risultato, con effetti anche sostanziali, ma sempre troppo cari dunque non godibili, in questo mio nuovo tempo ho lavorato per scoprire il mio modo di fare e condividere col prossimo. Osare esprimermi e vedere che effetto che fa, si sugli altri, ma prima di tutto su di me!

Dunque è questa la f…elicità: Essere. Tutto il resto è una pura e semplice conseguenza e la fatica è il normale lavoro, puri joule che si dissipano qui e ora nell’atto di Essere. Il prodotto del lavoro svolto è proprio la felicità!

Quella che comunemente viene vissuta come una difficoltà, e dunque evitata con ogni sforzo possibile, non è altro che il viaggio di scoperta interiore, il far pulizia di ciò che si crede necessario secondo uno schema che ha come unico scopo l’omologazione di fronte al prossimo, il dare spazio alle proprie innate caratteristiche che per loro stessa natura non sono faticose in accezione distruttiva, bensì impegnative e costruttive, la via della piena realizzazione di sé.

Fare lo sforzo iniziale di investire in coraggio ha come risultato quello di riuscire a spezzare le catene degli schemi fissi, regala lo stupore quotidiano di ogni attimo vissuto, la piena gratitudine per ciò che abbiamo ricevuto da coloro che abbiamo combattuto per inconsapevolezza, il senso di esistere e goderne.

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Siamo forse gasteropodi con le braccia?

By | crescita personale | No Comments

In una socialità che ci convince spesso di difettare di autostima, potremmo recuperare la determinazione che ci ha permesso di crescere fisiologicamente e impiegarla per maturare equilibrio interiore.

Durante una mia lettura di qualche tempo fa ho scoperto che un bimbo neonato posto a contatto con l’addome materno, libero di muoversi nella sua nuova dimensione esterna alla madre, è in grado, strisciando in un movimento autonomo, di raggiungere da solo il seno materno assicurandosi il nutrimento.

In natura, per esempio tra i numerosi cuccioli quadrupedi, accade naturalmente che il neonato impiega pochi minuti per alzarsi e iniziare la sua esplorazione del mondo: gli studi ci spiegano che nella loro corteccia cerebrale vi è scritta l’importanza di imparare a procacciarsi il cibo e sopravvivere, dapprima seguendo la madre per poi arrangiarsi, nella maggior velocità per non mettere in pericolo la specie.

Il cucciolo uomo impiega mesi prima di avere lo stimolo al movimento che lo condurrà a camminare con le proprie gambe. I neonati, nella media normalità dei casi, godono di accudimento che soddisfa le necessità di sopravvivenza e li lascia liberi di sviluppare una forma di esplorazione che è prima di tutto conoscitiva, anziché fisica. La percezione, l’ascolto, l’osservazione, il contatto permettono al bambino di acquisire abilità cognitive e maturare il tessuto cerebrale, determinando un personale processo di crescita durante il quale prima o poi si sentirà sicuro di muoversi e cercherà di raggiungere i suoi passi in autonomia.

L’accudimento del neonato e il relazionarsi con lui, sono dunque le condizioni favorevoli affinché il bambino maturi in sé l’interesse senza del quale non sentirebbe la necessità di muoversi. L’inizio del movimento, ovvero il gattonare, rotolare o strisciare nei modi più fantasiosi, è dovuto al tentativo di raggiungere qualcosa che desta interesse. Ecco che tutto l’ambiente disponibile diventa una palestra attraverso cui sviluppare le capacità di soddisfare la curiosità di conoscenza che contraddistingue l’umano.

La natura ci dota di tutto ciò che è necessario per imparare a camminare. Il processo personale con cui ognuno di noi ci è riuscito si è composto di cadute, esperimenti, deduzioni, ascolto e percezione del proprio corpo fino a sentirci sicuri di noi stessi e delle nostre possibilità: ecco che abbiamo tutti acquisito la consapevolezza dell’equilibrio.

Fisicamente, a quell’età, più o meno tutti abbiamo goduto di grande autostima per raggiungere il primo gradino dell’autonomia. Emotivamente, nella crescita successiva, sono intervenute le diverse esperienze nella vita per cui spesso, senza nemmeno averne cognizione, abbiamo fermato la maturazione della nostra autostima e abbiamo fatto subentrare il giudizio.

Ogni esperienza di vita, anche dopo aver iniziato a camminare da soli, è un allenamento a conoscere chi siamo e quanto possiamo contare su noi stessi. Non avrebbe mai fine questo processo naturalmente evolutivo. Succede però che, nel confrontarci col prossimo, rinunciamo alla perfezione individuale e rinunciamo a condividere con gli altri il comune appartenere al Mondo intero, tutti le infinite espressioni dell’Uno.

Ogni esperienza di caduta che nell’apprendere la capacità di bipede era sviluppo della determinazione, in età più matura viene giudicata fallimento. Dunque diviene motivo di rinuncia alla continua evoluzione di Sé, tassello unico e irripetibile del Mondo, e conduce ad intraprendere la strada della competizione, verso l’omologazione a schemi innaturali.

Non abbiamo ricordo dei lunghi giorni trascorsi a conoscere l’equilibrio, forse abbiamo ricevuto racconti dell’accaduto o visto filmini al tempo stesso divertenti e commoventi, ma se ancora muoviamo i nostri passi nella vita (in qualunque modo avvenga) significa che la determinazione è ancora dentro di noi. Magari ben nascosta, dimenticata sotto cumuli di autogiudizio, ma presente e utile. Dunque quando sembra che l’equilibrio sia precario perché non ricordarsi che, anche senza sapere come, abbiamo ognuno imparato a camminare tra numerose cadute e che ognuna di quelle cadute è stata fonte di esperienza e risolutezza verso i propri obiettivi? Perché non pensare che se allora ci fossimo fermati al giudizio sulle nostre cadute, e così avessero fatto gli uomini nei secoli, probabilmente saremmo evoluti come una fantastica specie di gasteropodi con le braccia?

I cosiddetti “errori”, nel momento in cui smettiamo di giudicarli fallimentari, diventano dei fantastici personal trainer che ci danno la misura di quanto siano vere le nostre intenzioni e di quanto siamo in sintonia con noi stessi. Se ci sentiamo dei “falliti” forse è il momento di fermarsi, tornare all’osservazione che ci è dote naturale sebbene trascurata, e riprendere a costruire il nostro personale processo di crescita.

 

OBIETTIVI_ASPETTATIVE

Obbiettivi o aspettative?

By | crescita personale | No Comments

L’arte del “non fare”: imparare a far riposare corpo e mente per scoprire la bellezza di Essere.

Da alcuni decenni, la gran parte di quelli che ho conosciuto nella mia vita ora cinquantenne, ho notato diffusa la credenza che stare senza far nulla sia o inattuabile o addirittura disdicevole, quasi il segno dell’avere un qualche problema del tipo che non si è abbastanza capaci, non si è sufficientemente prestanti, non si hanno ambizioni degne, eccetera.

Il paradosso che se ne ottiene è la diffusione di uno stato costante di stress da cui sembra impossibile uscire e al contempo il desiderio crescente di potersi permettere l’ozio assoluto.

In questo ambito, a guardarsi intorno si incontra molto spesso la volpe narrata da Esopo: desiderosa dell’uva, incapace di raggiungerla e dunque autogiustificata dal concludere che l’uva è acerba. Mia nonna avrebbe commentato con un sommesso “mai contenti!” e avrebbe proseguito nella sua operosità.

Nei miei studi ho incontrato una definizione più tecnica di quel “mai contenti” quando ho letto la spiegazione di “dissonanza cognitiva” ovvero uno stato emotivo insoddisfacente causato dal fatto che i pensieri e i comportamenti sono in conflitto tra loro. L’esigenza di eliminare il disagio che ne consegue, ovvero una infelice opinione di sé, produce una serie di scuse e lamentele che rafforzano l’idea di non avere alternative e che la cosa più intelligente da fare sia perseverare nell’atteggiamento deludente.

Tra le scuse più gettonate ci sono frasi del tipo “c’è troppo da fare a star dietro a tutto”, “ci vorrebbero le giornate da 48 ore perché non resta mai il tempo per sé”, “non si può prendere tempo perché non va avanti nulla”, e via così. Ciò che si giustifica, cercando non faccia troppo male, è che non si riesce ad occuparsi di se stessi, del proprio stare bene. Si è invece sempre di corsa nell’affannato tentativo di trovare la quadra dove ciò che abbonda è mancanza di autostima.

Gli obiettivi che ci si pone, sia a breve che a lungo termine, spesso sono “aspettative mascherate”, ovvero necessità di riuscire a corrispondere ad una tipologia di persona e di vita che ci si è posti come finalità senza mai aver dedicato a se stessi un minimo di ascolto per comprendere se il modello ambito abbia qualcosa a che vedere con le proprie naturali propensioni. Il risultato è che le corse affannose incrementano lo stress e proporzionalmente anche l’alienazione da sé e dal godersi la vita.

Porre fine allo sforzo perpetuo e scoprire che il tempo è solo una unità di misura e che si può anche restare parte della propria giornata senza scadenze a cui vincolarsi, significa darsi un nuovo appuntamento! Quello con se stessi, col proprio respiro, con quell’ozio che, se ce lo permettiamo, può divenire un eccezionale strumento di produttività.

Uscire dall’ansia di fare per dimostrarsi e dimostrare di essere qualcuno, può regalare un risparmio energetico incredibile nonché lo spazio attraverso il quale la natura di cui siamo fatti ne approfitta per rigenerarsi e sbocciare di rigogliosa creatività e vitalità.

Scegliere di investire sulla propria consapevolezza può suonare impopolare in un primo momento, così come difficile da mettere in pratica, ma in men che non si dica apre ad una nuova disponibilità verso se stessi e diventa una fonte di energia con cui creare benessere psicofisico e qualità di vita.