
In una socialità che ci convince spesso di difettare di autostima, potremmo recuperare la determinazione che ci ha permesso di crescere fisiologicamente e impiegarla per maturare equilibrio interiore.
Durante una mia lettura di qualche tempo fa ho scoperto che un bimbo neonato posto a contatto con l’addome materno, libero di muoversi nella sua nuova dimensione esterna alla madre, è in grado, strisciando in un movimento autonomo, di raggiungere da solo il seno materno assicurandosi il nutrimento.
In natura, per esempio tra i numerosi cuccioli quadrupedi, accade naturalmente che il neonato impiega pochi minuti per alzarsi e iniziare la sua esplorazione del mondo: gli studi ci spiegano che nella loro corteccia cerebrale vi è scritta l’importanza di imparare a procacciarsi il cibo e sopravvivere, dapprima seguendo la madre per poi arrangiarsi, nella maggior velocità per non mettere in pericolo la specie.
Il cucciolo uomo impiega mesi prima di avere lo stimolo al movimento che lo condurrà a camminare con le proprie gambe. I neonati, nella media normalità dei casi, godono di accudimento che soddisfa le necessità di sopravvivenza e li lascia liberi di sviluppare una forma di esplorazione che è prima di tutto conoscitiva, anziché fisica. La percezione, l’ascolto, l’osservazione, il contatto permettono al bambino di acquisire abilità cognitive e maturare il tessuto cerebrale, determinando un personale processo di crescita durante il quale prima o poi si sentirà sicuro di muoversi e cercherà di raggiungere i suoi passi in autonomia.
L’accudimento del neonato e il relazionarsi con lui, sono dunque le condizioni favorevoli affinché il bambino maturi in sé l’interesse senza del quale non sentirebbe la necessità di muoversi. L’inizio del movimento, ovvero il gattonare, rotolare o strisciare nei modi più fantasiosi, è dovuto al tentativo di raggiungere qualcosa che desta interesse. Ecco che tutto l’ambiente disponibile diventa una palestra attraverso cui sviluppare le capacità di soddisfare la curiosità di conoscenza che contraddistingue l’umano.
La natura ci dota di tutto ciò che è necessario per imparare a camminare. Il processo personale con cui ognuno di noi ci è riuscito si è composto di cadute, esperimenti, deduzioni, ascolto e percezione del proprio corpo fino a sentirci sicuri di noi stessi e delle nostre possibilità: ecco che abbiamo tutti acquisito la consapevolezza dell’equilibrio.
Fisicamente, a quell’età, più o meno tutti abbiamo goduto di grande autostima per raggiungere il primo gradino dell’autonomia. Emotivamente, nella crescita successiva, sono intervenute le diverse esperienze nella vita per cui spesso, senza nemmeno averne cognizione, abbiamo fermato la maturazione della nostra autostima e abbiamo fatto subentrare il giudizio.
Ogni esperienza di vita, anche dopo aver iniziato a camminare da soli, è un allenamento a conoscere chi siamo e quanto possiamo contare su noi stessi. Non avrebbe mai fine questo processo naturalmente evolutivo. Succede però che, nel confrontarci col prossimo, rinunciamo alla perfezione individuale e rinunciamo a condividere con gli altri il comune appartenere al Mondo intero, tutti le infinite espressioni dell’Uno.
Ogni esperienza di caduta che nell’apprendere la capacità di bipede era sviluppo della determinazione, in età più matura viene giudicata fallimento. Dunque diviene motivo di rinuncia alla continua evoluzione di Sé, tassello unico e irripetibile del Mondo, e conduce ad intraprendere la strada della competizione, verso l’omologazione a schemi innaturali.
Non abbiamo ricordo dei lunghi giorni trascorsi a conoscere l’equilibrio, forse abbiamo ricevuto racconti dell’accaduto o visto filmini al tempo stesso divertenti e commoventi, ma se ancora muoviamo i nostri passi nella vita (in qualunque modo avvenga) significa che la determinazione è ancora dentro di noi. Magari ben nascosta, dimenticata sotto cumuli di autogiudizio, ma presente e utile. Dunque quando sembra che l’equilibrio sia precario perché non ricordarsi che, anche senza sapere come, abbiamo ognuno imparato a camminare tra numerose cadute e che ognuna di quelle cadute è stata fonte di esperienza e risolutezza verso i propri obiettivi? Perché non pensare che se allora ci fossimo fermati al giudizio sulle nostre cadute, e così avessero fatto gli uomini nei secoli, probabilmente saremmo evoluti come una fantastica specie di gasteropodi con le braccia?
I cosiddetti “errori”, nel momento in cui smettiamo di giudicarli fallimentari, diventano dei fantastici personal trainer che ci danno la misura di quanto siano vere le nostre intenzioni e di quanto siamo in sintonia con noi stessi. Se ci sentiamo dei “falliti” forse è il momento di fermarsi, tornare all’osservazione che ci è dote naturale sebbene trascurata, e riprendere a costruire il nostro personale processo di crescita.